venerdì 27 febbraio 2009

bum

bum-bum-bum. il cuore sembra fare tira-e-molla, tira-e-molla, tira-e-molla… ribum-ribum-ribumbum. ce l’ho praticamente in gola, e adesso è in bocca. “arimo”, penso. e lui: “arivives”… e ribum! stavolta muoio. dovevo stare a casa a dormire. patabam. tanto la mia reattività oggi è quella di un collaudatore di materassi. però se batte è un buon segno, no? l’ultima volta che ho avuto ste palpitazioni stavo in cima a una salita dopo tre ore in bicicletta. stavolta a ridurmi così è bastato il poco sonno di stanotte (e il vino di ieri sera) che ho aggredito con cinque o forse sei caffé. il risultato che ho ottenuto è variopinto: una lingua gommata, un tritacarne nelle tempie, un fischio del treno costante nell’orecchio sinistro, l’acetone, uno sguardo alla luca giurato quando conduceva uno mattina, una barba incolta che devo stare con la finestra aperta per farcela stare in ufficio, una mobilità da astice vivo nella vetrina del ristorante (in effetti batto sulla tastiera con tre dita di due diverse mani unite in un’unica chela). in più non mi ricordo dove ho parcheggiato il treno (o sono venuto in macchina?).
spero che brunetta non legga mai sta roba che sto scrivendo in orario d’ufficio. anzi, c’è un form per l’autodenuncia sul sito del ministero? se sì, in cambio di tre aulin e una media di biochetasi sono disposto a compilarlo a colpi di chela. bum.

giovedì 19 febbraio 2009

vodka

“Lunedì ho bevuto con i polacchi. Martedì sono quasi morto. Mercoledì ho di nuovo bevuto con i polacchi. Giovedì ho rimpianto di non esser morto martedì”.
(da una guida turistica sulla polonia)

venerdì 13 febbraio 2009

martedì 10 febbraio 2009

meraviglie

poi mi siedo e leggo qualche riga sulla musica. qualche riga firmata dallo scrittore aldo nove che parla di un disco (come si diceva una volta) come secondo me se ne dovrebbe parlare. cioè, più con la pancia che con la tecnica. quel disco, scrive, “non dichiara impegni, è solo impegnato a tenere vivo il fuoco della meraviglia adesso, nell’esserci qui”.
è proprio quello che mi passa per la testa in queste notti di poco sonno: mi sento fieramente impegnato a tenere vivo il fuoco della meraviglia, che sia meraviglia per le cose belle, che sia meraviglia per le cose brutte. poi che in questi giorni la bilancia della mia meraviglia penda verso le prime è caso, dono divino, merito. ecchilosa. l’importante è poter riconoscere quella scarica elettrica.

lunedì 2 febbraio 2009

nella terra dei calamari

a giudicare dalla luce sta diventando sera, e siamo in quattro sulla jeep. alla guida ci sta un tale che non ho mai visto. dovrebbe essere il capo perché io, il mio amico pi e la mia elle lo abbiamo seguito senza battere ciglio e abbiamo preso posto in macchina. pi davanti, io ed elle dietro. la jeep parte lasciandosi sulla destra delle montagne che sono quasi certo di aver già visto ma non ricordo quando. (bevo). poco dopo, il fuoristrada fa su e giù per una stradina strettissima tutta fango e sassi. ormai è buio ma non sembra faccia molto più freddo rispetto a quando siamo partiti. (madonna che sete, madonna che buono il thè freddo al limone). dopo un po’ di sobbalzi stradali da playstation, sulla sinistra compare un lago. lo costeggiamo. prima che ci arrivasse l’acqua lì sotto c’era un paese: dal lago affiorano infatti un campanile qui e, laggiù, la cima di una torre crollata. dev’esserci stata un’alluvione, penso. (e ribevo: il thè è secco, sorso d’acqua interminabile allora). la jeep si ferma. nessuno lo dice ma è evidente che siamo arrivati. lasciamo la macchina e, dietro al tale che continuo a non conoscere, io, pi ed elle c’incamminiamo per un sentierino ripido. molto ripido: difatti comincio a sudare quasi subito. (è normale che abbia ancora sete? ho appena bevuto. avrò mica il diabete?). più che un sentiero ormai è una specie di scalinata di mordor che corre su nel taglio della montagna. non sono tranquillo e non saprei dire per quanto saliamo. so, però, che l’affanno cresce e mi fa piacere quando “il capo” si ferma e indica uno sperone di roccia. la nostra salita finisce qui: quello sperone grigio, franato, di pietra scura e frastagliata a quanto pare è la nostra meta. (bevo per la felicità). ci avviciniamo.
ci sono due luci, una azzurra e una bianca, che stanno come “appoggiate” allo sperone. facciamo un altro passo verso la roccia, ed è proprio come mi sembrava da lontano. mi viene la pelle d'oca. quelle luci sono in realtà due donne di venti o trenta centimetri massimo, fluorescenti come quelle statue trash delle madonnine sudamericane. sono vestite come dame di corte del medioevo. ma non sono statuine: luccicano, si muovono, ci guardano e parlano. (ho il fiato corto ma non posso fare a meno di tracannare un’altra secchiata d’acqua). la loro voce, in realtà, è appena un soffio sottile che c’impedisce di capire che cosa stiano dicendo. il capo, adesso, parla pure lui e ci sollecita: “ascoltatele. le capite?”. nemmeno il tempo di dire “no” che le dame cominciano a svanire. allora il capo, con animo: “buttate della terra sul punto dove le luci spariscono. buttatela per farle tornare!”. mi chino per raccogliere la terra. e la sento umida nella mano, quasi fangosa.

questo è l’effetto che mi può fare una pizza ai calamari fritti, cotta male e digerita peggio, se provo comunque a dormirci sopra. a distanza di due giorni, ci penso e risento ancora quella sete malata in bocca. malata come il suo sogno.