capita che io, il lamentela e il pigiama veniamo invitati nella grande città. motivo scatenante: una cena a
casa di una spasimante del lamentela.
il parco ospiti della serata
è notevole. sprofondati sui divani ci sono l’ex fidanzato della spasimante del
lamentela, con sorriso stampato da mille canne su un lineamento che ricorda il
divino otelma. al suo fianco due pischelli limonano col rifrullo. ti risparmio
il resto della varia, stravaccatissima umanità.
passata un’ora, e constatato
il deboscio irreversibile, intuisco che se non cuciniamo noi qua non si mangia.
e ti ho detto tutto.
allora passo in veloce
rassegna il mio ricettario disperato e la cosa più semplice che focalizzo è la
pasta aglio, olio e peperoncino. “gli ingredienti ci sono”, assicura la padrona
di casa.
peccato non avere a
disposizione la mia performante dispensa, nella quale avrei potuto scegliere
anche tra pomodori secchi sott’olio, cioccolato milka imbastardito coi tuc e
nervetti dell’esselunga.
però, che trio di
moschettieri del palato: il lamentela affetta l’aglio mentre io faccio bollire
gli spaghetti; quindi il pigiama trasporta i piatti ricolmi ai divani. manca
solo d’artagnan a scrostare le pentole col fioretto.
quelli sul divano, poracci,
alla fine la sbobba se la mangiano pure. e con pochissime e comprensibilissime
proteste, considerato che gli spaghetti come li faccio incollare io non li fa
incollare nessuno.
più tardi, tornando a casa,
ripenso alle virtuose parole di mia sorella quella volta che sopravvisse per
miracolo a una cena da me: “se esistesse un equivalente per la cucina, saresti
da proporre per un trattamento sanitario obbligatorio”. venitemi a prendere, se
avete il coraggio.